CORTE DI ASSISE D'APPELLO DI REGGIO CALABRIA 
                           Seconda Sezione 
 
    La Corte di Assise d'Appello di Reggio Calabria, Sezione Seconda,
riunita in camera di consiglio e cosi' composta: 
    Dott. Roberto Lucisano, Presidente; 
    Dott. ssa Marialuisa Crucitti, Consigliere; 
    sig. Rodolfo Di Paola, Giudice popolare; 
    sig. Giovanni Lollio, Giudice popolare; 
    sig. Maurizio Lamanna, Giudice popolare; 
    sig. Antonino A D'Agostino, Giudice popolare; 
    sig. Domenico Rechichi, Giudice popolare; 
    sig. Melchiorre Mannino, Giudice popolare. 
    Con la presenza dei Giudici popolari supplenti: 
    sig. Maria Domenica Violi; 
    sig. Domenico Lagana'; 
    sig. Rosa Idone. 
    Nel procedimento penale a carico di C.T. (nato a...  il...  ),  a
scioglimento della riserva formulata all'udienza del 18 gennaio 2016,
nella  quale  il  Procuratore  Generale  ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale; 
    Sentite le altre parti osserva. 
    Il presente procedimento si fonda su una serie di intercettazioni
telefoniche, ambientali e, soprattutto, di missive spedite e ricevute
in carcere dall'imputato C.T., dalle quali il giudice di primo  grado
inferiva l'esistenza di un progetto criminoso volto a  consolidare  e
rafforzare il potere sul territorio di Siderno della famiglia C., con
a capo lo stesso imputato detenuto, e la consumazione di una serie di
specifici fatti delittuosi. La corrispondenza in questione non veniva
acquisita agli atti a seguito di  provvedimento  di  sequestro  della
stessa ex art. 254  codice  di  procedura  penale  ma  per  mezzo  di
un'attivita' di copiatura eseguita dalla polizia giudiziaria,  previo
provvedimento  autorizzativo  emesso  dal  giudice  per  le  indagini
preliminari competente. Le missive venivano, pertanto, recapitate  ai
destinatari senza alcuna comunicazione ai detenuti circa  l'attivita'
intrapresa dall'autorita' giudiziaria. 
    Tale attivita' investigativa  era  in  un  primo  tempo  ritenuta
legittima dalla Suprema Corte di cassazione che, con sentenza n. 3579
del 18 ottobre 2007 (dep. 2008, Costa, Rv. 238902),  aveva  affermato
l'utilizzabilita'  in  via  analogica,  per  la  intercettazione   di
corrispondenza, della procedura prevista dal codice di  rito  per  le
intercettazioni telefoniche e di comunicazioni  ex  art.  266  e  ss.
c.p.p.. Secondo la richiamata sentenza il provvedimento  del  giudice
che autorizzava  il  controllo  della  corrispondenza  con  eventuale
sequestro delle lettere rilevanti per le indagini era parificabile ad
un provvedimento di intercettazione di conversazioni o  comunicazioni
telefoniche, costituendo un mezzo  di  prova  non  specificamente  ed
autonomamente disciplinato dalla legge processuale, utilizzabile  sia
perche' non oggettivamente vietato, sia perche' la prova era  formata
in modo da garantire i diritti della persona. 
    Successivamente all'emissione  della  sentenza  di  condanna  del
giudice di prime cure  la  sesta  sezione  penale  della  Cassazione,
rilevata l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla
questione  relativa   all'intercettabilita'   della   corrispondenza,
rimetteva gli atti alle Sezioni Unite a norma dell'art. 618 codice di
procedura penale. Le Sezioni Unite, con sentenza del 19  aprile  2012
(depositata il 18 luglio 2012), dopo aver rilevato che «ne' prima ne'
dopo le novita' introdotte  mediante  l'art.  18-ter  ordinanza  pen.
dalla legge n. 95 del 2004, poteva e puo' essere  disposta  dall'a.g.
l'apprensione in forma occulta del contenuto della corrispondenza dei
detenuti», enunciava il seguente principio di diritto: «la disciplina
delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, di  cui  agli
articoli  266  e   seguenti   c.p.p.,   non   e'   applicabile   alla
corrispondenza, dovendosi per la  sottoposizione  a  controllo  e  la
utilizzabilita' probatoria del contenuto epistolare seguire le  forme
del sequestro di corrispondenza di cui agli articoli 254 e 353 codice
di procedura penale e, trattandosi  di  corrispondenza  di  detenuti,
anche  le   particolari   formalita'   stabilite   dall'art.   18-ter
dell'ordinamento penitenziario». 
    Conseguentemente a  tale  pronuncia,  doveva,  dunque,  ritenersi
inutilizzabile nel processo, a  norma  dell'art.  191  c.p.p.,  tutta
quella    documentazione     consistente     nella     corrispondenza
illegittimamente intercettata,  trattandosi  di  prova  acquisita  in
violazione dei divieti stabiliti dalla legge. 
    Il   primo   giudice   d'appello,   peraltro,    rilevava    come
l'inutilizzabilita' delle missive non  implicasse,  di  per  se',  la
perdita di tutto il  materiale  probatorio,  potendosi  per  converso
utilizzare le dichiarazioni degli imputati rispetto al  contenuto  di
alcune lettere delle  quali  era  stata  data  lettura  dal  pubblico
ministero  in   sede   di   interrogatorio   dibattimentale   ed   in
contraddittorio tra le parti. La Corte d'Assise di Appello perveniva,
dunque, anche sulla  base  di  detti  elementi,  ad  un  giudizio  di
colpevolezza di C.T. e di C.G. per i delitti  di  tentata  estorsione
aggravata ed. associazione mafiosa ed il primo anche per i delitti di
associazione  finalizzata  al  narcotraffico,   omicidio   volontario
aggravato e connessi reati in materia di armi. 
    La Suprema  Corte  di  Cassazione,  investita  da  ricorso  della
difesa, annullava con rinvio la sentenza limitatamente al delitto  di
omicidio volontario ed ai connessi reati  in  materia  di  armi.  Con
riferimento al profilo relativo  all'utilizzazione  probatoria  della
corrispondenza,   oggetto   di   intercettazione,   i   giudici    di
legittimita', pur non intendendo disattendere  le  indicazioni  delle
Sezioni  Unite,  sottolineavano  la  «consequenziale   compromissione
dell'acquisizione al  procedimento  e  al  processo  di  informazioni
utili, nonche' la evidente sperequazione con la  disciplina  prevista
per le  intercettazioni  e  comunicazioni  non  epistolari»  che  non
tranquillizzava sul versante del rispetto di principi  costituzionali
di grande momento,  tra  cui  l'art.  3  della  Costituzione.  Veniva
comunque confermata la statuizione del  giudice  di  merito  rispetto
all'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni   espresse   in   sede   di
interrogatorio   con   cui   l'imputato   forniva   una    differente
interpretazione del contenuto di una parte delle missive. 
    Durante l'udienza del 18  gennaio  2016  di  questo  giudizio  di
rinvio  il  Procuratore  Generale  chiedeva  che  venisse   sollevata
questione di legittimita' costituzionale  degli  articoli  18  (nella
versione  antecedente  alla  riforma  ex  lege  n.  95  del  2004)  e
dell'attuale  art.  18-ter  dell'ordinamento  penitenziario  -   come
interpretati dalle Sezioni Unite n.  28997/2012,  per  contrasto  con
l'art. 3  della  Costituzione  in  considerazione  dell'irragionevole
disparita' con la disciplina di cui agli articoli 266 e ss. codice di
procedura penale nella parte in cui  non  consentono  tali  norme  di
procedere,  per   finalita'   investigativa,   al   controllo   della
corrispondenza epistolare del detenuto all'insaputa del  destinatario
del provvedimento. 
    Tanto premesso, ritiene questa  Corte  sussistenti  nel  caso  di
specie i requisiti di  non  manifesta  infondatezza  e  di  rilevanza
richiesti   perche'   sia   sollevata   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Quanto al primo profilo si osserva  che  l'interpretazione  degli
articoli 266 e ss. codice di procedura penale fornita  dalle  Sezioni
Unite della Cassazione  con  la  sentenza  -  gia'  richiamata  -  n.
28997/2012, ne esclude  l'applicabilita'  anche  alle  ipotesi  della
corrispondenza. Questa si deve  -  allo  stato  -  ritenere  soltanto
sottoponibile a sequestro secondo gli articoli 254 e  353  codice  di
procedura penale e,  nell'ipotesi  in  cui  si  tratti  di  detenuti,
osservando  le  particolari  formalita'  stabilite  dall'art.  18-ter
dell'ordinamento penitenziario. 
    Com'e' noto, la liberta' e  la  segretezza  della  corrispondenza
ricevono una spiccata tutela costituzionale: l'art.  15  della  Carta
Fondamentale, difatti, ne statuisce «l'inviolabilita'», consentendone
la limitazione soltanto per atto motivato dell'autorita'  giudiziaria
e con le garanzie stabilite dalla legge. E' anche in  virtu'  di  una
simile «doppia riserva», l'una giurisdizionale e  l'altra  di  legge,
che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato la non
estensibilita'   alla   corrispondenza   della    disciplina    sulle
intercettazioni telefoniche e delle altre forme di telecomunicazione,
a  norma  degli  articoli  266  e  seguenti  del  codice   di   rito.
L'operazione, infatti, sarebbe di  tipo  analogico  e  pretorio,  non
consentita in una materia presidiata da una doppia riserva. Prova  ne
sarebbe anche la  circostanza  che  il  legislatore,  per  includervi
l'intercettazione delle  comunicazioni  informatiche  e  telematiche,
abbia dovuto prevederle espressamente con un apposito art. 266-bis, e
che nel corso dei lavori parlamentari della  XV  legislatura  si  sia
presentato  un   disegno   di   legge   per   includervi   anche   la
corrispondenza, con l'introduzione di  un  art.  266-ter,  senza  che
questo sfociasse poi  in  legge.  L'unico  strumento  a  disposizione
dell'autorita' giudiziaria sarebbe pertanto quello del  sequestro  di
corrispondenza, di cui agli articoli 254 e 353 c.p.p.,  nel  caso  in
cui vi sia fondato motivo di ritenere che le lettere, i pacchi o  gli
altri oggetti di corrispondenza, abbiano una relazione con il reato. 
    Appare dunque prima facie evidente come la risultante di questa -
seppur condivisibile -interpretazione delle Sezioni Unite, conduca ad
una evidente sperequazione. 
    L'art. 15 della Costituzione tutela tanto la liberta'  quanto  la
segretezza della corrispondenza, con la prima intendendosi il diritto
di poter comunicare liberamente e senza interferenze con altri, e con
la seconda, viceversa, riferendosi alla fondata pretesa che  soggetti
terzi non prendano illegittimamente conoscenza  del  contenuto  della
comunicazione.  Lo  strumento  del  sequestro  di  corrispondenza  si
riferisce soltanto al  primo  dei  due  aspetti  esaminati,  giacche'
idoneo a «interrompere» lo scambio epistolare nel caso  di  relazione
con il reato, mentre  non  si  ritiene,  allo  stato,  consentito  il
ricorso ad uno strumento giurisdizionale limitativo del solo  secondo
aspetto, statico, della segretezza della corrispondenza, nel caso  in
cui vi sia interesse da parte dell'autorita' investigativa a  che  il
rapporto epistolare prosegua anche per prevenire  e/o  sanzionare  la
commissione di reati. Il  ricorso  ad  un  siffatto  strumento  viene
viceversa consentito per le  intercettazioni  telefoniche  e  per  le
altre forme di telecomunicazione, con  una  disparita'  evidentemente
violativa  del   principio   di   uguaglianza   perche'   del   tutto
irragionevole.  Ne'  varrebbe  a  confutare  questa  affermazione  il
supposto rilievo secondo il quale la corrispondenza  troverebbe,  nel
nostro   ordinamento,   una   tutela   rafforzata    rispetto    alle
intercettazioni   telefoniche   in   virtu'   dell'art.   15    della
Costituzione,  giacche'  lo  stesso  si  riferisce  non   solo   alla
corrispondenza, ma «ad ogni altra forma di  comunicazione»,  tra  cui
rientrano,  e'  appena  il  caso  di  rimarcarlo,  le   comunicazioni
telefoniche. 
    Tale  disparita'  viene  ulteriormente  accentuata  nel  caso  di
corrispondenza tra detenuti:  l'art.  18-ter  ord.  pen.  ,  infatti,
prevede che, per esigenze attinenti le indagini o investigative o  di
prevenzione dei reati ovvero per ragioni di  sicurezza  o  di  ordine
dell'istituto nei confronti dei singoli detenuti o internati  possano
essere disposti, con decreto motivato, per un periodo non superiore a
sei mesi, successivamente prorogabile per periodi non superiori a tre
mesi, provvedimenti consistenti nella limitazione alla corrispondenza
epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; nel visto di
controllo della corrispondenza; nel  controllo  del  contenuto  delle
buste  che  racchiudono  la  corrispondenza;  senza   lettura   della
medesima.   Il   visto   di   controllo   deve   dunque    consistere
nell'apposizione  di  un  segno  riconoscibile  e  idoneo  attestante
l'effettuato  controllo  da  parte  dell'autorita'  giudiziaria   con
conseguente comunicazione della visione del contenuto  delle  lettere
ai soggetti che intrattengono la corrispondenza. In  questo  modo  lo
stato detentivo, del tutto irrilevante per i fini  investigativi,  si
pone quale fattore ulteriormente limitativo delle  indagini,  valendo
per cio' solo a determinare oneri comunicativi che di  per  se'  sono
incompatibili con la segretezza della funzione  investigativa  e  che
non  sono  richiesti  per  i  soggetti  non  privati  della  liberta'
personale. Con l'aberrante  conseguenza,  tra  le  altre,  che  -  in
assenza del visto di controllo - il  detenuto  possa  senza  problemi
continuare dal carcere ad eseguire o espandere un progetto criminoso,
anche ordinando o concordando la consumazione  di  gravi  delitti.  A
fronte di cio', certamente legittima e incontestata e' la facolta' di
sottopone ad intercettazione ambientale i  colloqui  tra  detenuti  e
persone libere in  visita,  cosi  come  quella  di  effettuare  anche
riprese televisive onde  cogliere  lo  scambio  di  segni  occulti  e
«pizzini». Per queste modalita' non sono richiesti oneri  diversi  da
quelli  generalmente  prescritti  dal  codice  di  rito,  e  non   si
configurano  certo  quali  strumenti  meno  invasivi  rispetto   alla
violazione della privatezza o della segretezza  delle  comunicazioni,
essendo anzi le riprese video uno  strumento  assai  piu'  penetrante
della lettura della corrispondenza. 
    Tali  profili  gia'  in  occasione  della  sentenza  parziale  di
annullamento con rinvio nel  presente  procedimento  avevano  portato
incidentalmente la Suprema Corte  ad  esprimersi  nel  senso  di  non
ritenere   infondata   un'eventuale   questione    di    legittimita'
costituzionale con riferimento all'art.  3  della  Costituzione,  non
solo  per  la  irragionevole  disparita'   di   disciplina   tra   le
intercettazioni telefoniche e quelle epistolari, ma anche  in  quanto
l'art. 18-ter  ordinanza  pen.  attribuirebbe  una  sorta  di  status
privilegiato rispetto a quello dell'indagato non detenuto, «trattando
in modo diseguale situazioni del tutto uguali, lo stato detentivo non
potendo certo considerarsi, nella prospettiva dei fini  investigativi
(...) elemento che possa giustificare una diversa  disciplina.».  Non
solo, ma preso atto della possibilita'  di  eseguire  intercettazioni
ambientali  o  riprese  video  anche  all'interno   delle   strutture
carcerarie «sarebbe difficile riscontrare una ragione di una  diversa
disciplina di comunicazioni svolte  con  diverse  modalita'  che  non
incidono,  pero',  depotenziandole,  sulle  esigenze  attinenti  alle
indagini ne' che si traducono in una  piu'  incidente  compromissione
dei diritti fondamentali del detenuta comunicante a viva voce, magari
con segni criptici, con l'interlocutore.» (Cass. 15197/2014). 
    Pare,  peraltro,  a  questa  Corte  che  non  sia  manifestamente
infondata anche  la  questione  relativa  al  contrasto  delle  norme
suddette con l'art. 112 della Costituzione. Il quadro normativo  cosi
delineato,  infatti,  risulta  irragionevolmente  compromissorio   in
relazione  alle  esigenze  investigative  e  alla  completezza  delle
stesse,    tanto    da    rendere    ineffettivo     il     principio
dell'obbligatorieta'   dell'azione   in   relazione   alle    ipotesi
considerate. Come chiarito dalla sentenza  n.  121/2009  della  Corte
costituzionale,  infatti  «[...]  il  principio  di   obbligatorieta'
dell'azione penale, espresso dall'art. 112  Cost.,  non  esclude  che
l'ordinamento possa subordinare l'esercizio dell'azione a  specifiche
condizioni [...]. Affinche' l'art. 112  Cost.  non  sia  compromesso,
tuttavia, simili canoni debbono risultare intrinsecamente razionali e
tali  da  non  produrre  disparita'  di  trattamento  fra  situazioni
analoghe: e cio', alla luce dello stesso fondamento dell'affermazione
costituzionale   dell'obbligatorieta'   dell'esercizio    dell'azione
penale,  come   elemento   che   concorre   a   garantire   -   oltre
all'indipendenza  del  pubblico  ministero  nello  svolgimento  della
propria funzione - anche e soprattutto l'uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge penale.». ; 
    L'art. 112, dunque, si pone come naturale completamento dell'art.
3 della  Costituzione  in  relazione  alle  vicende  investigative  e
processuali;  la  distonia   fra   la   disciplina   riguardante   le
intercettazioni telefoniche e la corrispondenza, in  particolare  (ma
non soltanto) qualora si tratti di soggetti  detenuti,  non  rispetta
quel medesimo canone  di  intrinseca  razionalita'  richiamato  dalla
giurisprudenza costituzionale, giacche' non e' giustificata ne' dalla
natura dello strumento utilizzato ne', tantomeno, dal bene protetto -
che afferisce  in  ogni  caso  alla  segretezza  delle  comunicazioni
private per come tutelate dall'art. 15 della Costituzione. 
    Si  e'  dunque  in  presenza  di  una  irragionevole  menomazione
dell'attivita'  investigativa  costituzionalmente   attribuita   agli
uffici di Procura,  impossibilitati,  allo  stato,  ad  impostare  le
indagini in modo tale da non compromettere il corso della  spedizione
della corrispondenza,  cosi'  come  avviene  per  le  intercettazioni
telefoniche e delle altre forme  di  telecomunicazione,  di  modo  da
monitorare, sempre secondo canoni di legalita'  assicurati  dall'art.
266 c.p.p., il carteggio tra soggetti all'insaputa degli  stessi.  Il
sequestro di  corrispondenza,  come  gia'  precisato,  e'  del  tutto
inidoneo a soddisfare le esigenze investigative sotto questo aspetto;
impedendo  la  stessa  ricezione   delle   missive   e   paralizzando
irreversibilmente la comunicazione. L'attivita'  investigativa  viene
addirittura vanificata nel caso di controllo  di  corrispondenza  del
detenuto, in quanto la previa apposizione  del  visto  di  controllo,
riconoscibile, lo rende immediatamente edotto del controllo in  atto,
privandolo del tutto di efficacia, ben potendo il detenuto optare per
una differente forma di comunicazione o per  un  linguaggio  criptato
tale da risultare sostanzialmente indecifrabile. E' appena il caso di
ricordare, peraltro, che la completa individuazione degli elementi  e
delle fonti di prova si appalesa come precipitato naturale  dell'art.
112 Cost. anche in ottica difensiva,  stante  l'onere  per  la  parte
pubblica di ricercare fatti e  circostanze  a  favore  della  persona
indagata, come da  art.  358  del  codice  di  rito:  si  pensi  alle
espressioni «dubbie» se non calate nel  contesto  di  riferimento,  o
alle millanterie. Elementi, questi, da poter essere  apprezzati  solo
in  caso  di  intercettazione  di  comunicazioni  diverse  dal   mero
sequestro del plico. 
    Detto cio', il  giudizio  sulla  rilevanza  deve  necessariamente
prendere le mosse dalla circostanza che  le  missive  copiate  e  non
sottoposte a sequestro ne' alle formalita' prescritte dagli art. 18 e
18-ter dell'ordinamento penitenziario, non possono essere, in  virtu'
della ricordata interpretazione delle Sezioni Unite della Cassazione,
utilizzate nella loro completezza nel presente procedimento. Vero e',
come ricordato poc'anzi, che nel primo giudizio  d'appello  la  Corte
d'Assise aveva ritenuto utilizzabili le dichiarazioni espresse  dagli
imputati in relazione al contenuto delle missive, di cui  gli  stessi
implicitamente  ammettevano  l'esistenza  e  prospettavano  una  loro
interpretazione,  e   che   tale   operazione   -   richiamando   una
giurisprudenza sul punto consolidata - veniva avallata dalla Corte di
cassazione in sede di sentenza  di  annullamento.  Tuttavia,  se  con
riferimento ad altre ipotesi di reato (quelle di natura associativa e
quella concernente il disegno estorsivo) il quadro probatorio che  se
ne ricavava  appariva  sufficientemente  delineato  ai  fini  di  una
compiuta valutazione circa la ravvisabilita' di tali ipotesi di reato
(con  conseguenti  pronunce  sia  di  condanna  che  di   assoluzione
relativamente ai  diversi  fatti  ascritti  agli  imputati),  occorre
prendere   atto   della   lacunosita'   del   materiale   di    prova
processualmente   utilizzabile   relativamente    alla    fattispecie
omicidiaria ed ai connessi reati in materia  di  armi  contestati  al
Costa e per i quali la Suprema Corte ha disposto nuova  pronuncia  di
questa Corte territoriale. 
    Al riguardo non puo', infatti, non rilevarsi che  la  limitazione
del quadro probatorio alle sole parti di  missive  sottoposte  a  suo
tempo all'esame degli imputati ed oggetto  delle  loro  dichiarazioni
pregiudichi  ad  ogni  evidenza  una  interpretazione  che  ne  possa
valorizzare il senso piu' ampio derivante dalla lettura degli  interi
documenti  e  dal  raffronto  tra  gli  stessi,   cosi'   cogliendone
compiutamente sfumature, senso logico, sviluppo dinamico, riferimenti
espliciti e/o impliciti. 
    Si tratta di limitazione che, si badi, puo' andare  a  detrimento
di entrambe le parti del procedimento,  al  cospetto  di  un  insieme
probatorio che si presenta allo stato - per le limitazioni  derivanti
dalla normativa vigente  -  sconnesso  e  frammentario,  laddove  una
lettura  completa  della  corrispondenza  intercorsa  tra  le   parti
consentirebbe  di  pervenire  ad  una  valutazione  che  tenga  conto
dell'intera  documentazione  in  oggetto,  evitando  parzialita'   ed
incongruenze che andrebbero certamente a  detrimento  della  corretta
ricerca della verita' processuale. 
    Per di piu', non puo' al riguardo omettersi di considerare che la
stessa Suprema Corte nella sentenza di  annullamento  con  rinvio  ha
fatto esplicito riferimento al fatto che sia stato possibile  per  il
detenuto, tramite la corrispondenza postale,  protrarre  un  condotta
continuata criminosa, attraverso collegamenti mafiosi con  l'esterno,
il potenziamento della cosca operante a suo nome  nel  territorio  di
Siderno, la trasmissione continua di input per  la  perpetrazione  ed
organizzazione di omicidi. 
    Appare, dunque, indispensabile che - attraverso l'esame diretto e
completo della corrispondenza intrattenuta dal detenuto con l'esterno
- si possa verificare se dal contenuto  della  stessa  siano  o  meno
ricavabili  elementi  idonei  a   sostenere   l'unica   contestazione
concernente  la   fattispecie   di   omicidio   volontario   avanzata
nell'ambito del presente procedimento. 
    Da  cio'  deriva  la  sicura  rilevanza  che  la   questione   di
legittimita' costituzionale riveste nel caso di specie, potendo  essa
consentire - se accolta - il completo recupero del materiale di prova
sul quale fondare il giudizio della Corte. 
    Ritenuta pertanto la rilevanza e non manifesta infondatezza della
questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3
e 112 della Costituzione, e nei termini sin  qui  specificati,  della
norma di cui all'art. 266 codice di  procedura  penale  e  di  quelle
dell'ordinamento penitenziario regolatrici della materia cui la Corte
deve dare  applicazione  nel  presente  giudizio,  se  ne  impone  la
rimessione  alla  Corte  costituzionale   per   la   decisione,   con
conseguente sospensione del giudizio in corso.